Forse dovremmo coltivare oasi di resistenza nel nostro cuore,
nella nostra mente, nei nostri sogni, nei nostri gesti,
nei nostri sguardi e nelle nostre scelte.
Coltivare e custodire oasi di resistenza da un pensiero unico
che vuole allineare tutto e tutti, mitizzando diritti individuali per
omologazioni collettive, bandendo la ragione per legiferare l’irreale,
promettendo libertà per le gabbie di domani.
E quelle gabbie saranno diverse da quelle del passato, perché quelle
sbarre le costruiremo noi stessi, nel nostro cuore, nella nostra mente,
nei nostri sogni, nelle nostre azioni…
Dobbiamo coltivare oasi di resistenza, vere “terre di mezzo” dove il potere
non potrà mai trovare possibilità di accesso.
Dove molteplici diversità
concorreranno alla creazione di un bene comune.
Imitando la resistenza dei curdi a Kobane, contro l’Isis.
Siamo chiamati a prendere esempio da questi uomini e da queste donne
che in nome della libertà sono disposti a sacrificare la propria vita,
facendolo anche per noi tristi e pavidi europei.
Kobane ha resistito.
E noi nel frattempo, cosa facciamo?
Leggi : http://www.limesonline.com/dentro-kobane/76243
Dentro Kobane, reportage di Lucia Goracci, pubblicato su Limes

[Carta di Laura Canali]
Un reportage dal cuore della città del Rojava che più di ogni altra ha resistito all’avanzata dello Stato Islamico, riconquistando con le armi la sua liberazione.
“Quella è la scuola dove insegnavo” mi dice Idris indicandomi un cubo di cemento color ocra, in controluce all’orizzonte.
Ho imparato a conoscere Kobane dai binocoli dei curdi sulle colline turche di Suruc. Lungo il fianco ovest della città siriana – Ayn al Arab frettolosamente ribattezzata dallo Stato Islamico (Is) Ayn al Islam – un vasto cimitero delle auto è il monumento alla fuga precipitosa dei curdi nella vicina, diffidente Turchia, nei giorni dell’avanzata dell’Is. Ma gruppi di profughi sono tornati su quelle colline, quotidianamente, per assistere dal vivo alla battaglia per Kobane. Pronti a indicarci a distanza ogni angolo della loro città.
Un racconto andato avanti per oltre 4 mesi. È stato detto che l’inattesa attenzione internazionale per Kobane sia da ascriversi anche alla facilità di accesso del racconto giornalistico alla città. Dalla metà dello scorso settembre – e a maggior ragione dall’inizio dei bombardamenti della coalizione a guida statunitense sulla Siria, il 23 di quel mese – la stampa di tutto il mondo si è concentrata nell’area turca di Mursitpinar, mostrando vividi i combattimenti e le esplosioni provocate dai raid aerei. E anche quando la presenza di soldati turchi alla frontiera si è infittita, taccuini, microfoni e telecamere sui cavalletti hanno continuato dalle alture che sovrastano Kobane a riferire della sua lenta agonia, divenuta poi disperata, eroica resistenza. Ma non è stato questo resoconto ravvicinato e minuzioso, impensabile su altri fronti della guerra contro lo Stato Islamico, a determinare da solo quella svolta che ha portato a concentrare su Kobane il maggior numero degli attacchi della coalizione contro l’Is (oltre 700).
“Per quanto orrendo sia assistere in tempo reale a ciò che sta accadendo a Kobane, essa non definisce la strategia della coalizione” – dichiarava lo scorso 13 ottobre il segretario di Stato americano John Kerry. E nemmeno sembrava prioritaria, la sua conquista, per le direttrici di espansione dello Stato Islamico. Più una facile preda, una delle tante facili avanzate territoriali da trasformare in sfida mediatica all’occidente. Sublimata nel videoreportage dell’ostaggio John Cantlie del 27 ottobre: “I media occidentali (e non ve ne sono molti intorno) dicono che l’Is sia in ritirata qui a Kobane, ma io in verità vedo gruppi numerosi di mujaheddin, che non si stanno affatto ritirando”.
Cantava prematuramente vittoria lo Stato Islamico, ma Kobane ha resistito. Più di ogni altra città siriana o irachena. Più da sola di tutte le altre. La Turchia ha lasciato chiusa, sigillata quella frontiera, il solo lato da dove Kobane non fosse accerchiata dai jihadisti. Che dalla vicina Tel Abyad a est e dai villaggi conquistati a sud e a ovest della cittadina curda, inviavano mezzi pesanti e rinforzi, tra cui molti combattenti stranieri. L’ingresso consentito dal governo di Ankara a un centinaio di peshmerga si è rivelato essere più un omaggio all’amicizia con il presidente del Kurdistan iracheno Mas’ud Barzani che il segnale di un maggiore impegno sul fronte anti-Is. E i peshmerga a Kobane si sono acquartierati sul fianco occidentale meno esposto, perdendo in combattimento un soldato, a fronte delle centinaia di vittime tra i curdi dell’Ypg, le locali unità di protezione del popolo.
Così dentro la strategia per depotenziare e infine distruggere lo Stato Islamico delineata dalla Casa Bianca, Kobane diventava la città da difendere perché l’Is voleva prendersela. Nei resoconti giornalistici il simbolo eterno di un martirio che non si piega. A Washington, il banco di prova più nitido e imminente dell’idea obamiana di battere l’Is con bombardamenti dal cielo e l’impegno sul terreno di sole forze locali. Per i curdi qualcosa di più: una scommessa di legittimità e autogoverno da difendere a tutti i costi. Come correttamente osserva Amberin Zaman su Al Monitor, il Pkk (Partito dei Lavoratori Curdi tutt’ora al bando in Turchia, che però ha avviato un negoziato con accordi di cessate il fuoco, nel 2013) e la sua filiazione siriana Pyd (Partito dell’Unione Democratica di cui l’Ypg è l’ala militare) hanno mostrato di essere le forze più combattive ed efficaci contro lo Stato Islamico sia in Iraq che in Siria. Furono queste forze a proteggere e mettere in salvo, nell’agosto scorso, decine di migliaia di yazidi abbandonati a se stessi sul monte Sinjar. E a partecipare con impegno determinante alla riconquista peshmerga della cittadina di Makhmour.
Sono stata a Kobane nei primi giorni di quest’anno, dal 14 al 21 gennaio, entrandovi nell’unico modo consentito dai turchi: clandestinamente. Quello che segue è il resoconto di quei giorni, che ne hanno preceduto la liberazione.
Si entra di notte, a tarda notte, dopo una chiamata dei curdi con cui avevi preso contatto a Suruc e soste prolungate in case di campagna al confine. Prima di una marcia a piedi che andrà avanti per ore, ti avvertono che i soldati turchi ti cercheranno, ti inseguiranno, spareranno in aria. Che tu devi solo andare avanti rapidamente: se ti fermerai, nessuno verrà a riprenderti.
Ed è quel che succede. Faticoso, emozionante, mai veramente pericoloso. Quando arrivi dentro Kobane è ormai l’alba. Ti sistemano in una casa dei giornalisti. La città è senza riscaldamento né elettricità. Si vive al pianterreno, più al riparo dai razzi e proiettili di mortaio. Negli otto giorni dentro non corriamo mai rischi inutili e non ci viene mai chiesto di visionare il lavoro che stiamo realizzando. Due giovani curdi assistono noi giornalisti: Mustafa e Parwar. Prima della guerra erano studenti universitari a Damasco e Latakia. Con uno di loro avevo realizzato mesi prima un’intervista telefonica, mentre era detenuto in Turchia dove con altri curdi agli arresti nel palazzetto dello sport di Suruc aveva cominciato uno sciopero della fame.
Kobane è una città di vuoti. La presenza di armati prevale su quella dei civili. C’è anche l’Esercito Libero Siriano (Esl), ma stando con i curdi i suoi combattenti li incroci senza davvero incontrarli. Un episodio mi fa pensare a una coesistenza non facile: è il primo giorno, sto realizzando interviste in un quartiere vicino al posto di frontiera con la Turchia e a distanza riavvicinata un uomo spara in aria con la sua arma. I curdi mi fanno rapidamente allontanare. A far fuoco è stato uno dell’Esercito Libero Siriano – mi spiegano – non è dei nostri. Dobbiamo andarcene.
Kobane/Ayn al Arab nasce nel 1892 come insediamento rurale nell’impero ottomano. Il villaggio cresce agli inizi del Novecento con la costruzione di uno scalo ferroviario. Nelle intenzioni del sultano, è destinata a divenire stazione di sosta sulla linea Berlino-Baghdad. I primi a popolarla sono gli armeni in fuga dai pogrom, quindi arriveranno i curdi dall’Anatolia. A questa origine la tradizione popolare lega il nome curdo della città, Kobane: gli operai che tutti i giorni raggiungevano da Suruc il cantiere dicevano di recarsi alla kompanie – la parola tedesca per compagnia. Un’altra leggenda non si discosta troppo e lega il nome di Kobane alla tedesca Ko. Bahn, dove bahn sta per treno. Fu ancora la ferrovia a segnare – come altrove in Medio Oriente – il confine labile e arbitrario tra Turchia e Siria, nel 1921.
Oggi la città, un tempo 45 mila abitanti, parte del governatorato di Aleppo, è uno dei tre cantoni del Rojava, laboratorio di autogoverno curdo nato dall’arretramento del regime di Asad da quella parte di Siria. Il preambolo della sua carta costitutiva recita: “Noi popoli che viviamo nelle Regioni Autonome Democratiche di Afrin, Jazira e Kobane – una confederazione di curdi, arabi, assiri, caldei, aramaici, turcomanni, armeni e ceceni – liberamente e solennemente adottiamo questa carta. Perseguendo libertà, giustizia, dignità, democrazia, nel rispetto del principio di uguaglianza e nella ricerca di un equilibrio ecologico, la carta proclama un nuovo contratto sociale, basato sulla reciproca comprensione e la pacifica convivenza”. Piaccia o meno al presidente turco Erdogan, non è come Ayn al Arab, ma come Kobane che la città passerà alla storia della guerra contro l’Is.
Quando ci arrivo chiunque sia rimasto, militare o civile, è al servizio della resistenza all’assedio. Piazza della Pace è la più vicina alla frontiera con la Turchia. Qui era l’ospedale che un camion bomba ha sbriciolato. Poco distante un’altra autobomba ha aperto un cratere smisurato a ridosso di edifici a più piani. I curdi ti ci portano e ti dicono che quell’autobomba è venuta dalla Turchia. Piazza Libertà, era un tempo il fulcro della vita cittadina. Completamente distrutta, resta misteriosamente integra la statua d’oro di un’aquila dalle ali spiegate. Solo i minareti delle moschee hanno avuto lo stesso fortunato destino. E’ a partire da questa piazza che la città diventa fronte, a sud e a est. Le trincee sono gli stessi crateri delle esplosioni riempiti di detriti e rottami. Lenzuola appese a riparare le strade dai cecchini sono le quinte di Kobane.
Le abitazioni sono case di bambole rovesciate. La distruzione non appare il risultato di assalti, ripiegamenti, imboscate, ma frutto di un unico gigantesco tsunami, che ha sospeso il tempo. C’è quel che resta di un barbiere, con le sue foto in bianco e nero; di una banca, con la gigantografia di George Washington sulla banconota da un dollaro; c’è un alimentari dove un’esplosione ha sparso sementi in ogni dove; e tutti i negozi di estetista hanno le sagome dei corpi femminili sulle insegne crivellate dai proiettili dell’Is, che visibilmente si è accanito contro. Ti dicono che il nemico era qui una settimana fa, 20 giorni, un mese fa. I bagni degli appartamenti, visibili dalla stada, conservano spazzolini e dentifrici, dentro bicchieri polverosi. La vita che c’era e che è corsa via gemendo. Ecco perché in strada a Kobane ci si saluta tutti, ma proprio tutti. E sulle saracinesche abbassate, la promessa scritta a spray: Kobane heya mirin. Siamo pronti a morire per te, Kobane.
Nella lingua madre, il kurmanji, si fa lezione negli scantinati dei palazzi. Il regime siriano vietava l’insegnamento e le pubblicazioni in lingua, persino certe festività erano proibite. Le maestre non sono ancora tornate, giovani volontarie hanno riaperto la scuola. Che è poco distante dal nuovo cimitero dei combattenti – terra sempre scavata di fresco e cortei funebri di soli uomini. Dopo che l’avanzata dell’Is è stata fermata, alcune famiglie hanno lasciato i campi profughi turchi e sono rientrate a Kobane, dove hanno trovato riparo anche gli sfollati dei villaggi vicini. Le classi sono miste per sesso ed età. Quando i bambini odono l’eco di un’esplosione dalle feritoie che illuminano malamente l’aula, lo segnalano alla maestra “Li sente? Stanno ricominciando”. Da grandi vogliono fare tutti il combattente dell’Ypg o l’infermiere. Mestieri di guerra per bambini in guerra. Ypg per gli uomini, Ypj (unità femminili di protezione) per le donne.
Ne incontro moltissime, a Kobane. Si chiamano Arin, Nisan, Evin, per avvicinarle occorre l’autorizzazione dei comandi militari, come per gli uomini. Di loro mi colpisce la disciplina. Che è insieme addestramento militare e mentalità. Tutte hanno chiuso con il passato, scelta ben poco femminile. Le più giovani hanno lasciato la scuola in Turchia dove vivevano, per unirsi alla guerriglia. Una ha perso la sorella in combattimento: “Neanche sono andata al funerale – mi dice – dall’inizio avevamo concordato che non lo avremmo fatto, se fosse accaduto. Meno doloroso”. Di dolore non amano parlare, di politica sì: lo fanno più apertamente degli uomini. Il Rojava è esperimento autenticamente democratico, ti dicono, ma in Occidente ci considerate terroristi. Per l’attenzione dei media che simbolicamente contrappongono il loro empowerment all’immagine di subordinazione e servitù che della donna ha lo Stato Islamico, provano sorpresa e fastidio. Semplicemente, esse non si sentono diverse dagli uomini tra i quali vivono e combattono.
A Kobane incontro anche l’Is. Sul fronte orientale, un’autobomba viene scagliata contro le posizioni dei curdi. Segue un assalto che viene respinto dopo un intenso scambio di fuoco. È il 15 gennaio. L’Is di notte bombarda continuamente la città. I feriti, anche civili, vengono portati nei sotterranei di un edificio che si improvvisa ospedale. Fuori ci vietano le riprese, per evitare che anche questo pronto soccorso sia individuato e colpito. Dentro, un medico dal perfetto francese mi fa: “Ha visto cosa è accaduto a quelli di Charlie Hebdo? Dovete capirlo, in Occidente, in gioco non è solo il destino di Kobane”.
Alla scuola Yarmuk, lungo il fronte sud, vedo a terra cadaveri di jihadisti uccisi in combattimento. Alcuni sono in avanzato stato di decomposizione, altri morti appena il giorno prima. Hanno tratti somatici europei. Nessun documento addosso, che aiuti a identificarli. “Il Dash (acronimo arabo dell’Is) ha provato ad attaccarci da questo lato – mi dice un ex bidello, che ora è di guardia con altri curdi. La scuola è un edificio alto per questo lo difendiamo. Abbiamo respinto l’assalto. Non li vede? Sono europei. Non c’è bisogno delle carte d’identità. Guardi la pelle, il colore delle barbe… Non sono siriani. E guardi le mani, la muscolatura del corpo: non sono guerrieri addestrati come noi.
La notte è un ricordo indelebile. Scende inaspettata, assoluta. All’orizzonte sono gli avamposti militari turchi. Si scrutano le loro pattuglie, per capire se rifornimenti e rinforzi riusciranno a passare. Le stelle provano a illuderti che qui sia come altrove. Le case accendono i generatori per aggiornarsi su vittorie e sconfitte. Gli anziani servono il tè, dolcissimo e chissà come dissetante. Di tutte le esplosioni di Kobane, quelle dei raid della coalizione spalancano porte e finestre. E allargano sui volti un sorriso: tayàra, tayàra! Gli aerei, sono qui per noi.
Gli aerei. Quando ai primi di febbraio lo Stato Islamico ha ammesso di esser stato sconfitto a Kobane, ha dato la colpa ai raid della coalizione. “Non risparmiavano nemmeno le motociclette – hanno dichiarato i suoi affiliati nei video – Così ci siamo dovuti ritirare e i ratti (i curdi) sono avanzati”.
Da allora i curdi di Kobane hanno liberato decine delle centinaia di villaggi nelle mani dell’Is. I raid della coalizione continuano. In città 15 persone sono morte, vittime di bombe inesplose. La difficile ricostruzione è avviata. Ismet Sheikh Hasan che amministra la difesa di Kobane ha rivolto un appello a tutti i giovani che hanno trovato riparo in Turchia: tornate in città, venite a pulire le strade di Kobane. “Possiamo vivere in tenda” ha dichiarato un rifugiato pronto a tornare, al quotidiano britannico Independent.
Scrisse un secolo fa il presidente americano Woodrow Wilson, campione dell’autodeterminazione dei popoli: “una nazione ha diritto all’indipendenza se è in grado di camminare sulle proprie gambe, con credenziali democratiche e di rispetto delle minoranze”. Idee che a Kobane non lascerebbero indifferente nessuno.